Statuto dei Lavoratori, un cammino da riprendere

L’entrata in vigore della Costituzione, il 1° gennaio 1948, fu completamente ignorata nei luoghi di lavoro per molto tempo. Già nei primissimi anni del dopoguerra, soprattutto nelle fabbriche, si respirava infatti un clima autoritario, caratterizzato da discriminazioni e licenziamenti per motivi politici e sindacali.

Era il 1952 quando Giuseppe Di Vittorio, al congresso della Cgil a Napoli, propose di elaborare uno Statuto dei diritti dei lavoratori da proporre e discutere con le altre organizzazioni sindacali. Ci vollero anni e soprattutto tante lotte per raggiungere l’obiettivo. Determinanti furono le lotte operaie della fine degli anni ’60, che anticiparono nei loro contratti molti diritti di libertà che divennero parte qualificante dello Statuto dei Lavoratori.

I mutati rapporti di forza determinati dalla spinta unitaria delle lotte operaie, che investivano direttamente le condizioni di lavoro, facilitarono i compiti della politica. Così lo Statuto dei Lavoratori – la Legge 300 del 20 maggio 1970 – divenne la prima grande riforma degli anni ’70.

Allora ero un giovane operaio Fiat componente della Commissione Interna per la Fiom – Cgil e ricordo che uno dei principali obiettivi della nostra lotta era proprio “fare entrare la Costituzione in fabbrica”. Sapevamo cos’era successo nelle fabbriche e soprattutto alla Fiat: ce lo testimoniavano i compagni più anziani e i sindacalisti licenziati, che avevano lottato negli anni ’50 e ’60.

Molti di noi erano giovani ed entusiasti di partecipare a quell’impresa. L’adesione dei lavoratori alla lotta, a differenza di qualche anno prima, era molto forte e il tutto si svolgeva in clima unitario, che caratterizzò anche alcuni anni successivi, e permise di ottenere grandi risultati.

Parlando del futuro della democrazia, nei primi anni ’80, Noberto Bobbio poteva così affermare: “Sino a che i due grandi blocchi di potere dall’alto che esistono nelle società avanzate, l’impresa e l’apparato amministrativo, non vengono intaccati dal processo democratico, […] il processo democratico non può dirsi compiuto. Però mi sembra di un certo interesse osservare che […], per esempio nella fabbrica, è talora avvenuta la proclamazione di alcuni diritti di libertà nell’ambito dello specifico sistema di potere […]: mi riferisco, per esempio, allo Statuto dei Lavoratori, che fu emanato in Italia nel 1970”.

Certo, dopo mezzo secolo, alcuni contenuti di quella legge devono essere aggiornati, e così è stato fatto. Basti pensare a quanti mutamenti ci sono stati delle norme inerenti il mercato del lavoro, allora trattato nel Titolo “Norme sul collocamento”.

Tuttavia, due questioni in particolare, collegate tra loro, non possono dirsi scadute: la non monetizzazione del diritto alla salute (da ricordare le famigerate “paghe di posto”) e del diritto al lavoro. Si evincono dall’articolo 9 “Tutela della salute e dell’integrità fisica” e dal bistrattato articolo 18 “Reintegrazione nel posto di lavoro”.

Da anni, nella politica italiana, si è però affermata una concezione liberista secondo cui i diritti dei lavoratori costituiscono un ostacolo all’efficienza dell’impresa e, quindi, allo sviluppo. I guasti fatti da certa politica sono noti.

Oggi si tratta quindi di riprendere il cammino tracciato dallo Statuto dei Lavoratori, per ribadire, ripristinare e soprattutto estendere i diritti costituzionali in tutti i luoghi di lavoro: dalle officine agli uffici e alle campagne.

Bisogna riaffermare nei luoghi di lavoro che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (articolo 32 della Costituzione) e che “tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni” (articolo 35 della Costituzione).

Rocco Larizza

Segui Sicurezza e Lavoro su Facebook, Twitter e Instagram.

Per segnalazioni e invio notizie e comunicati a Sicurezza e Lavoro, scrivere a contatti@sicurezzaelavoro.org