Statuto dei Lavoratori, storia di una (dura) conquista annunciata

Lo Statuto dei Lavoratori, contenuto nella Legge 300 del 20 maggio 1970, venne emanato all’indomani dell’Autunno caldo, nel pieno di un lungo ciclo di agitazioni operaie iniziato dieci anni prima e destinato a chiudersi dieci anni dopo.

La debolezza sindacale degli anni ’50, dovuta alle divisioni interne al movimento operaio generate dai riflessi della guerra fredda, fu superata nel 1960, quando ripresero le agitazioni, favorite da un nuovo clima di unità sindacale e, all’apice del miracolo economico, dalla piena occupazione al Nord, che portava a un cambiamento storico del mercato del lavoro, finalmente, dopo un secolo, non più squilibrato a favore della domanda.

La stretta creditizia con la quale le autorità monetarie avevano reagito alle conquiste salariali dei rinnovi contrattuali dei primi anni ’60, aveva causato la congiuntura economica negativa del 1964-65, presto però superata dalla ripresa della crescita economica e delle rivendicazioni, in particolare con le vertenze aziendali intorno ai premi di produzione.

Gli scioperi ripresero numerosi nel 1968, coagulati intorno a due obiettivi generali: la riforma pensionistica e l’abolizione della gabbie salariali. Obiettivi che sarebbero stati raggiunti nella primavera del 1969, grazie anche alla mediazione di Giacomo Brodolini, Ministro del Lavoro socialista, che proprio in quei mesi iniziò a porre sul tappeto l’obiettivo di uno Statuto dei lavoratori. A capo della Commissione di studio appositamente costituita fu nominato Gino Giugni, giuslavorista anch’egli socialista, che portò a conclusione l’iniziativa sotto l’egida del nuovo Ministro, il democristiano Carlo Donat-Cattin, succeduto a Brodolini, nel frattempo scomparso.

Queste riforme, emanate dai Governi di centro-sinistra, tra le quali va ricordata la Legge 604 del 1966, che introduceva la giusta causa nei licenziamenti individuali, furono certo prodotte dalla forza della mobilitazione operaia, ma l’efficacia di quest’ultima dipese anche da un clima diffuso nell’opinione pubblica del tempo, che guardava con favore a concessioni ai lavoratori, nella convinzione che questi avessero ricevuto meno del loro contributo al miracolo economico in atto.

Lo sviluppo impetuoso di quegli anni, in effetti, era avvenuto molto rapidamente, forse troppo, per non lasciare squilibri, contraddizioni, problemi insoluti. Una massa di oltre cinque milioni di lavoratori si era mossa nel Paese, migrando in parte all’estero, in parte al Nord, e dalle campagne alle città. Un grande cambiamento sociale era avvenuto in brevissimo tempo, determinando in pochi anni la trasformazione epocale di un Paese ancora prevalentemente agricolo in un Paese industriale maturo: nel ’51 l’agricoltura era ancora il maggior settore occupazionale con il 42,2 per cento della popolazione attiva; nel 1971 la quota dell’industria arrivò al 44,4 per cento. I problemi furono determinati in particolare dall’enorme aumento della popolazione nelle grandi città industriali del Nord, dove mancavano case, scuole e servizi pubblici di ogni tipo.

La rivolta operaia della fine degli anni ’60 contro il lavoro monotono, ripetitivo e rigidamente disciplinato del fordismo si alimentò anche delle difficili condizioni abitative e della carenza di servizi, che contribuivano a trattenere i lavoratori sulla soglia del pieno accesso alla società dei consumi, oggetto ormai da un quindicennio delle martellanti campagne pubblicitarie televisive.

La produttività del lavoro, e con essa i profitti, era in effetti cresciuta più rapidamente dei salari, e il miglioramento del tenore di vita delle famiglie operaie era avvenuto più per l’aumento dei membri occupati che per significativi incrementi retributivi individuali. Anche il clima di contestazione, la spinta antigerarchica al cambiamento legata al ’68 studentesco, non fu senza riflessi sul ’69 operaio.

I temi centrali dello Statuto dei Lavoratori – la tutela della libertà e dignità dei lavoratori e la tutela legislativa dell’azione sindacale – avevano la loro radice negli anni ’50, quando nel pieno della guerra fredda, nell’asprezza dello scontro politico, gli imprenditori avevano messo in atto azioni repressive nei confronti dei lavoratori militanti comunisti e socialisti.

L’idea di uno Statuto dei diritti dei lavoratori fu avanzata per la prima volta nel 1952 da Giuseppe Di Vittorio, l’allora segretario generale della Cgil. In quell’anno, la Fiat aveva creato un’Officina Sussidiaria Ricambi (Osr), in corso Peschiera a Torino, dove era arrivata a confinare 130 operai considerati “facinorosi”, quasi tutti militanti della Fiom, che l’avevano ribattezzata Officina Stella Rossa; questo “reparto confino” sarebbe stato chiuso nel 1957 e tutti i lavoratori licenziati. Molte delle norme di tutela contenute nello Statuto del 1970 appaiono con tutta evidenza dettate dalla volontà di contrastare le pratiche repressive degli anni ’50.

In questo chiaro legame ebbe forse un ruolo Donat-Cattin, che aveva vissuto quella stagione da segretario provinciale torinese della Cisl, il sindacato di matrice cristiana travagliato in quel periodo dalla scissione di un folto gruppo di militanti che aveva costituito il Sida, il Sindacato dell’automobile, bollato come sindacato filopadronale.

Così, all’articolo 2, lo Statuto faceva divieto alle guardie giurate di svolgere attività di vigilanza e contestazione ai lavoratori, proibendone l’ingresso nei reparti di lavorazione se non per comprovate esigenze di tutela del patrimonio aziendale. L’articolo 5 vietava gli accertamenti sanitari e la valutazione di idoneità dei lavoratori da parte dei medici aziendali, riservando tali pratiche a enti pubblici. L’articolo 8 vietava le indagini sulle opinioni politiche dei lavoratori (si pensi alle schedature Fiat). L’articolo 11 prevedeva che le attività assistenziali e ricreative, ovvero i servizi sociali aziendali, finalizzati dalle imprese al consenso dei lavoratori e alla loro acquiescenza, fossero gestiti da organismi formati a maggioranza da rappresentanti dei lavoratori. L’articolo 16 vietava i trattamenti economici collettivi discriminatori, avendo come chiaro riferimento i cosiddetti “premi di collaborazione” pagati agli operai che non scioperavano. Gli articoli 15, 17 e 22 vietavano rispettivamente gli atti discriminatori, i sindacati di comodo, il trasferimento dei rappresentanti sindacali aziendali. Dunque, oltre al più famoso articolo 18, che prevedeva il reintegro del lavoratore nel posto di lavoro in caso di licenziamento indebito, una serie articolata e complessa di norme realizzava, a distanza di quasi vent’anni dalla prima proposta di Di Vittorio, quello che venne, e può essere a pieno titolo considerato, l’ingresso della Costituzione nei luoghi di lavoro.

Certo oggi, a distanza di mezzo secolo, il panorama economico sociale si è trasformato, con il passaggio dal lavoro ai lavori, la terziarizzazione dell’occupazione, la frammentazione del tessuto produttivo in una miriade di micro-imprese, l’emergere del lavoro atipico, precario, della gig economy, delle partite iva con mono-committenza che nascondono rapporti di subordinazione.

Emerge così pesantemente il limite di applicazione dello Statuto alle imprese con oltre 15 dipendenti, che esclude dalla tutela componenti crescenti del mondo del lavoro. Occorre dunque ripensare a nuove forme di salvaguardia dei diritti fondamentali per le nuove forme assunte dal lavoro, e procedere a una revisione del welfare in senso universalistico.

Il recupero dello spirito e delle finalità dello Statuto dei Lavoratori possono rappresentare una sicura guida.

Stefano Musso
Dipartimento di Studi Storici
Università degli Studi di Torino

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