Lo Statuto dei Lavoratori per interrogarsi sulla storia della Repubblica italiana (e del lavoro)

Lo Statuto dei Lavoratori era da molto tempo un’aspirazione presente nelle masse operaie. L’espressione stessa “Statuto dei lavoratori” era comparsa per la prima volta al III Congresso della Cgil svoltosi a Napoli dal 26 novembre al 3 dicembre 1952. Un personaggio noto, e amatissimo dagli operai, l’onorevole Giuseppe Di Vittorio, nella sua relazione aveva avanzato allora l’idea di uno «statuto dei diritti, della libertà e della dignità dei lavoratori nell’azienda». Per milioni di dipendenti e imprese l’esistenza di diritti e di prerogative dei lavoratori appare oggi qualcosa di scontato, una ovvia norma di garanzia, ma allora non era così.

Tra i commenti dell’epoca, ha avuto fortuna lo slogan “La Costituzione entra nelle fabbriche”. Si sarebbe dovuto aggiungere: “con il sindacato”.

Lo Statuto aveva come riferimento la situazione esistente nelle grandi fabbriche, con una classe operaia ampiamente sindacalizzata. Poi il mondo sarebbe cambiato, le grandi fabbriche sarebbero venute meno e la classe operaia si sarebbe spostata in parte nel settore dei servizi; ci sarebbe inoltre stata una crescita fortissima del lavoro autonomo.

Adesso sono maturi i tempi per un nuovo Statuto che allarghi le tutele a nuove categorie di lavoratori e che sia più attento alla sorte delle persone, sindacalizzate o no. Questo rimane da fare se si vuole essere fedeli allo spirito della vecchia e gloriosa legge del 20 maggio 1970. [Guido Crainz, E la libertà dei lavoratori diventò legge, la Repubblica 19 maggio 2020].

Lo Statuto venne approvato in prima istanza al Senato nel dicembre del 1969, negli stessi giorni in cui si concludeva positivamente la grande e tesa ventata dell’Autunno caldo (e contro di essa si profilava cupamente, a Piazza Fontana, la stagione delle stragi neofasciste e della “strategia della tensione”).

L’approvazione dello Statuto annunciava il decennio più intensamente riformatore della storia della Repubblica: in quello stesso 1970 vi furono la legge sul divorzio e l’istituzione sia delle Regioni che dello strumento referendario, previsti dalla Costituzione, ma rimasti sin lì inattuati. Vi saranno poi il diritto di voto a 18 anni, il nuovo diritto di famiglia, la riforma penitenziaria e infine la riforma sanitaria, la regolamentazione dell’aborto e la “legge Basaglia” sugli ospedali psichiatrici.

Il “padre” dello Statuto dei lavoratori, il socialista Giacomo Brodolini era scomparso nel luglio del 1969, ma il suo lavoro fu continuato con convinzione da Carlo Donat-Cattin, che lo sostituì al Ministero del Lavoro, e da Gino Giugni, cui Brodolini aveva affidato la guida del progetto.

Vennero scritti 41 articoli «a tutela della libertà e dignità dei lavoratori e della libertà sindacale»: volti cioè a tutelare l’organizzazione sindacale all’interno delle fabbriche e a limitare interventi e controlli padronali lesivi, appunto, dei diritti costituzionali.

Erano articoli concisi, che ci riportano a quel tempo: è proibita ogni selezione o discriminazione dei dipendenti in base alle loro opinioni politiche, la costituzione o il sostegno a sindacati “padronali”, l’uso di guardie giurate in funzione repressiva e di «impianti audiovisivi per finalità di controllo», e così via.

Ebbe un significato potente la conquista dell’assemblea e di altri diritti di organizzazione all’interno delle fabbriche, nel vivo di un rinnovamento sindacale caratterizzato anche dall’elezione diretta dei delegati di reparto. E da un progetto di unità sindacale che per un attimo sembrò realizzarsi.

Fu una fondamentale affermazione dei diritti costituzionali, soprattutto, quell’articolo 18 che vietava i licenziamenti «intimati senza giusta causa o giustificato motivo»: vietava cioè i licenziamenti di rappresaglia, volti a colpire attivisti sindacali e politici. E poneva fine a quei diffusi e vergognosi arbitrii padronali contro i lavoratori socialisti e comunisti che avevano segnato gli anni della guerra fredda: massicci licenziamenti “politici”, reparti “confino”, schedature sistematiche e così via

Non erano infondate le parole con cui Pietro Nenni apriva così la sua relazione al congresso del Psi nella Torino del 1955, all’indomani del crollo della Cgil nelle elezioni per le Commissioni interne alla Fiat: «L’intimidazione, il ricatto, la rappresaglia sono armi quotidiane, […] gli operai sono spiati, costretti alle loro macchine come automi, […] si è introdotto il sistema delle perquisizioni all’ingresso delle fabbriche» per impedire la diffusione di materiale di propaganda, e i lavoratori «sono posti davanti all’alternativa di votare come vuole l’azienda o di perdere il posto di lavoro».

In quello stesso 1955 quella realtà era documentata anche dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni nelle fabbriche, ma la gran parte della stampa taceva, come ha annotato Scalfari ne “L’autunno della Repubblica”:«Il pubblico colto non ha mai saputo in che modo, per tutto l’arco degli anni Cinquanta, la classe operaia sia stata sistematicamente disarmata, umiliata, quali drammi individuali e collettivi si siano verificati».

Nel corso degli anni Sessanta questa realtà iniziò a incrinarsi, nel prender corpo di un sindacalismo rinnovato e nella fase di maggior espansione del lavoro industriale (il 42% degli attivi nel 1970). Gli scioperanti nelle fabbriche, poco più di un milione nel 1966 e nel 1967, sono quasi cinque milioni nel 1969, nel clima descritto allora dall’intenso documentario di Ugo Gregoretti “Contratto”.

È approvato in quel clima lo Statuto dei diritti dei lavoratori, e si ricordi che introduceva la “giusta causa” nei licenziamenti solo per le aziende con più di 15 dipendenti (anche per questo il Pci si astenne dal voto, una scelta miope): affiorava anche qui la potenziale tensione tra i diritti dei lavoratori e le logiche delle imprese. Una tensione “governabile” nelle fasi economiche espansive, ma destinata a riproporsi in modo acuto nei momenti di crisi.

La crisi venne di lì a poco, provocata anche – nel 1973 – dal forte aumento del prezzo del petrolio, mentre la precedente e lunga “compressione dei diritti” aveva talora esasperato la condotta sindacale e i comportamenti operai.

Vi rifletterà più tardi, criticamente, lo stesso Giugni: in quel clima, scrisse, le libertà previste dallo Statuto «divennero (anche) tollerate libertà di assenteismo o inamovibilità per gli eccedentari ed esuberanti». Fenomeni come questi certo affiorarono, ma finirono presto, nelle drastiche trasformazioni del lavoro industriale avviate negli anni ’80. O meglio, nella progressiva scomparsa del lavoro industriale che avevamo conosciuto: sono eloquenti le “metamorfosi” di due luoghi importanti della fase precedente, il Lingotto della Fiat a Torino e la Pirelli Bicocca a Milano.

All’interno di quella colossale erosione del mondo operaio, le divisioni sindacali si acuirono progressivamente, mentre l’articolo 18 dello Statuto è potuto talora apparire negli anni più recenti non un fondamentale presidio di libertà, ma quasi un intralcio. Non solo nell’ottica di una imprenditoria d’assalto, come è sempre stato, ma talora anche – sciaguratamente – nella proposta di un “riformismo moderno”.

Eppure, quel testo di cinquant’anni fa ci ricorda nel modo migliore il nesso inscindibile e profondo tra il riformismo reale e i diritti, e ci costringe, al tempo stesso, a interrogarci sulla storia lunga della Repubblica. E del lavoro.

Giovanni Carpinelli
Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci

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