Una formazione di genere contro la discriminazione femminile sul lavoro

In Italia, il tasso di occupazione delle donne (15-64 anni) a giugno 2017 ha raggiunto il 48,8%: il livello più alto dall’avvio delle serie storiche Istat (1977). Il numero delle donne che lavorano è quindi il più elevato di sempre, ma continuano a persistere differenze di genere nell’accesso al mercato del lavoro e all’istruzione, in status e stabilità del posto di lavoro, salario, ecc. E si sta producendo una femminilizzazione dei lavori poveri, confermata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro – Ilo già in un Rapporto del 2007.

In questo contesto, l’occupazione delle donne nel mondo del lavoro è caratterizzata dalla cosiddetta discriminazione/segregazione di genere: ovvero, le donne – per ragioni culturali, fisiche, religiose – non sono impiegate negli stessi lavori degli uomini anche all’interno dello stesso settore, sia con divisioni tra tipi di attività e mansioni svolte (discriminazione orizzontale), sia rispetto all’inquadramento/carriera (discriminazione verticale).

Ciò avviene anche oggi, nonostante la spinta positiva data dalla rinuncia al lavoro di cura non retribuito – parziale o totale, a discapito di altre donne nei servizi alla persona – a favore di un lavoro retribuito esterno all’ambito familiare che, seppur abbia parzialmente re-distribuito i carichi familiari tra uomo e donna, ha fatto emergere la disparità nelle relazioni di potere.

La discriminazione/segregazione comporta anche un’esposizione diversa ai rischi lavorativi, per tipologia, intensità e durata. Sostanzialmente la letteratura ci dice, ormai da diversi anni, che nella maggioranza dei casi il lavoro femminile è caratterizzato da azioni ripetitive, monotone, con uno sforzo statico e responsabilità multiple (dentro e fuori dal lavoro) che minacciano sia la salute fisica che quella mentale (malattie muscolo-scheletriche, disturbi mentali/depressione, asma). Gli spazi, gli equipaggiamenti, le attrezzature e i ritmi di lavoro derivano da un’organizzazione del lavoro creata per una popolazione maschile, che peraltro corrisponde a un uomo medio, “neutro”.

Anche tra le patologie specificatamente femminili (aborti spontanei, nascita pretermine, ridotta fertilità, endometriosi) è stata dimostrata una correlazione all’esposizione a fattori di rischio occupazionali e ambientali. A ciò si sommano inoltre le molestie, le discriminazioni, il mobbing e la vera e propria violenza che viene esercitata nei confronti delle donne, dentro e fuori dai luoghi di lavoro.

Nella contrattazione e nella prevenzione c’è quindi un lavoro importante da fare. Bisogna:

  1. provare a ridurre la discriminazione/segregazione orizzontale e verticale nei luoghi di lavoro. Questo riguarda anche la scelta e il ruolo dei RLS (rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza), in cui deve essere favorita la presenza femminile;
  2. investire nella formazione, con un’ottica di genere che fornisca gli strumenti tecnici e culturali da agire nella contrattazione dell’organizzazione del lavoro, degli orari, della salute e sicurezza e nella contrattazione territoriale;
  3. provare a partire dalla contrattazione di genere sugli aspetti meramente fisici (maternità e altro) per provare poi ad avere un’attenzione anche agli aspetti socio-culturali;
  4. uscire dallo stereotipo che la contrattazione sia neutra: lavoratrici e lavoratori non possono essere considerati quasi come “androgini”;
  5. rilanciare una discussione nella contrattazione territoriale, a tutti i livelli, in merito alla programmazione e agli investimenti nella sanità pubblica per contrastare l’assioma che sanità e salute siano solo un problema di costi, ampliando in questo modo la sanità privata. Assistiamo infatti al mancato accesso alla cure sanitarie di buona parte della popolazione (circa 12 milioni di cittadini italiani non riescono più a curarsi), alla chiusura e mancanza di servizi sanitari intermedi nel territorio e di assistenza domiciliare e alla carenza strutturale di organico in ambito sanitario, socio-assistenziale e nella prevenzione territoriale (senza contare l’assenza di politiche di prevenzione).

Infine, è necessario dare continuità all’azione sindacale nei luoghi di lavoro e nel territorio, affinché la prevenzione, la tutela della salute e i diritti tornino al centro delle politiche pubbliche e dell’azione politico-sindacale.

Elena Petrosino