Storie di dentisti, welfare e lavoro in Libano

Come raccontare e far conoscere al pubblico le storie di progresso sociale, cooperazione e lavoro che coinvolgono i Paesi del Sud del mondo, senza cadere negli stereotipi e in triti luoghi comuni?

Nel 2018, la Commissione Europea – attraverso il bando Raising public awareness of development issues and promoting development education in the European Union – ha avviato il progetto “Frame, Voice, Report!”, ideato e gestito da sette organizzazioni europee: il capofila Cisu (Danimarca), con Cop (Italia, Piemonte), Resacoop (Francia, Auvergne-Rhône-Alpes), Lafede.cat (Spagna, Catalogna), Kepa (Finlandia), Wilde Ganzen (Paesi Bassi) e 11.11.11 (Belgio, come partner associato).

Con un obiettivo ambizioso: migliorare e rafforzare la consapevolezza e l’impegno di cittadine e cittadini europei relativamente agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS), invitando associazioni ed enti a presentare proposte che avessero uno stile preciso nella comunicazione, che rompessero i classici “schemi” stereotipati di racconto del Sud del mondo. Non parlando quindi al posto loro, ma dando voce (Voice) ai soggetti, cambiando l’inquadratura e il punto di vista (Frame), puntando l’occhio non solo sugli aspetti negativi, ma sui processi di risoluzione dei problemi messi in atto dalle persone di quei Paesi.

Uno dei progetti finanziati con il bando dell’anno scorso è stato “Storie Invisibili”, del COI – Cooperazione Odontoiatrica Internazionale onlus, associazione di Torino che da 25 anni promuove (in Italia e all’estero) solidarietà nell’ambito delle cure dentali.

Due torinesi, Luca Rolandi (giornalista) e Andrea Tomasetto (reporter e regista), si sono recati in Libano a conoscere, scoprire e raccontare la vita nei campi profughi Palestinesi. Il Coi, infatti, da alcuni anni, sostiene le attività di Beit Aftal Assumoud, associazione nata in Libano per opera di alcuni profughi palestinesi, con lo scopo proprio di dare vita a una sorta di “welfare parallelo” per chi vive nei campi, in una condizione molto particolare e problematica: ospiti in uno Stato che ti offre uno spazio vitale, ma dall’altro sentendosi sempre straniero, separato, recluso…

Baalbek Wawel Camp, un campo profughi in Libano.

Il Libano, che ha una superficie inferiore a quella del Piemonte e conta 4 milioni di abitanti, ospita oltre mezzo milione di profughi dalla Palestina, arrivati a partire dal 1948, in diverse ondate. Uno sforzo enorme, encomiabile, al quale negli ultimi 5 anni si è aggiunto il flusso dalla Siria, martoriata dalla guerra (si parla di un altro milione di persone, ma secondo dati ufficiosi i Siriani sfollati sarebbero un milione e mezzo!): si tratta di un profugo ogni 4 cittadini.

Il Libano, oltretutto, si trova ad affrontare problemi strutturali endemici: i postumi della sanguinosa guerra civile (1975-90), che ha causato enormi danni alle infrastrutture, con conseguenti carenze nella rete viaria, nei trasporti (in Libano non c’è una ferrovia, sono poche le autostrade: per percorrere i suoi circa 150 chilometri ci vogliono più o meno 3-4 ore), nella fornitura di energia elettrica e di acqua potabile; i livelli dei servizi sanitario e scolastico sono molto bassi, come anche quello della raccolta rifiuti.

Il paradosso è che il Libano è comunque uno Stato ricco, grazie alle sue bellezze naturali, a un suolo fertile, a un massiccio afflusso di capitali e di risorse finanziarie, ma con un fortissimo squilibrio tra pochissimi che sono molto ricchi, e tanti poveri. La classe media si è ridotta e impoverita con la guerra.

Che gusto c’è, però a essere miliardario a Beirut, se uscendo dal tuo grattacielo per fare jogging (a Beirut si corre una famosa maratona e in molti praticano footing) sullo stupendo lungomare, da un lato sei assediato dal traffico e rischi di essere investito, dall’altro hai davanti agli occhi sporcizia e immondizia, ammassate tra bellezze naturali da togliere il respiro?

Attività di animazione per bambine e bambini in un campo profughi libanese.

In questo contesto, si inserisce il discorso dell’accoglienza ai profughi. Ai palestinesi, che hanno lasciato le loro terre a partire dal 1948, viene concesso un luogo dove vivere (sono 12 i campi profughi attualmente operativi gestiti da un ente speciale dell’Onu, l’UnrwaUnited Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East, che si occupa dei soli esuli palestinesi), ma la situazione all’interno dei campi è davvero degradata: l’acqua non è potabile (è salata, con conseguenti problemi per la pelle), le strade sono dissestate, l’elettricità viene fornita solo poche ore al giorno (le comunità dei campi compensano con enormi generatori a scoppio, che però inquinano gravemente l’aria, causando malattie respiratorie e un aumento del numero di tumori ai polmoni, anche nei bambini), l’immondizia viene ritirata poche volte al mese. Inoltre, per “proteggere” i propri cittadini, il Libano non consente ai profughi di esercitare fuori dei campi alcune professioni più “elevate”, come quelle di ingegnere, medico, infermiere, dentista…

Per chi nasce e vive nei campi, l’alternativa è tra svolgere un lavoro non qualificato (muratore, raccoglitore nei campi di banane, meccanico…) oppure studiare, ma essere costretto a fare l’ingegnere, il dentista o l’avvocato solo all’interno dei campi, per gli altri profughi, con salari di conseguenza molto bassi.

Molti giovani – ci ha confidato Hassan, che vive nel campo di Burj Al Shemali, al sud – sognano di scappare. Tanti miei amici sono emigrati e ora si trovano in Egitto, in Canada, in Europa (Italia, Francia, Norvegia, Germania, Inghilterra). Lo fanno in modo illegale, spendendo 10-12mila euro i viaggi della disperazione. E molti muoiono. Sanno che è pericoloso, ma rischiano la pelle per cercare condizioni di vita migliori, soprattutto quelli che non hanno un’educazione e una prospettiva di lavoro”.

All’interno di questo quadro, è nata e opera l’associazione Assumoud. In tutti i campi hanno messo in piedi un centro dove ci sono un asilo e classi di studio post-scolastico. “Le classi delle scuole Unrwa hanno 50 alunni per insegnante e forniscono un’istruzione insufficiente – spiega Mahmud Asfari, responsabile del centro Al Shemali – e allora noi rafforziamo le basi della loro formazione, in inglese, matematica, storia”.

Bambine e bambini a scuola in un campo profughi in Libano.

Ci sono anche corsi professionali (“per aiutarli a trovare un lavoro e togliersi dalla strada” continua Mahmud), ambulatori medici e dentistici, attività sportive, gruppi scout, cori e orchestre, consultori per ragazze, incontri di auto-aiuto tra donne, family happiness, sostegno economico per indigenti, incontri culturali…

Ci ha colpito non solo cosa fanno – commenta il giornalista Luca Rolandi – ma soprattutto il come: i luoghi sono ben costruiti e tenuti benissimo. C’è attenzione alla bellezza, alla gentilezza, in tutto ciò che si fa. Non hanno nulla da invidiare ai nostri oratori, ai nostri centri”.

Tutto è nato nel 1975 – racconta Faizah Masri, palestinese, fondatrice dell’associazione – dopo una delle tante stragi compiute nei campi profughi a danno dei palestinesi. Per accudire bambine e bambini rimasti orfani, noi sopravvissuti abbiamo subito messo in piedi una sorta di asilo, con lo sforzo condiviso di tutti. Dal dare solo un tetto, siamo passati a fornire attività di svago, e poi scolastiche. Dai bambini abbiamo ampliato gli utenti a tutti i profughi. Ora offriamo attività a tutti, in ogni ambito di vita. Crediamo che più servizi le persone ricevono, più bella sarà la loro vita, e meno la gente sarà tentata dall’intraprendere strade di delinquenza e degrado”.

Già oggi molti rischiano di essere preda dei fondamentalisti – aggiunge Mahmude con la musica, con le attività dei centri, togliamo i giovani dalle strade e da quei circuiti pericolosi”.

Puntiamo molto sulla famiglia – spiega ancora Faizah – perché è la strada principale per arrivare ad aiutare tutti: donne, bambini, anziani, adulti. Rafforzando i nuclei famigliari e i vincoli di comunità in genere, sappiamo che riusciamo a offrire un aiuto veramente efficace, duraturo e profondo per le persone”.

Il lungomare di Beirut (Libano).

Rolandi ed io siamo tornati da questo viaggio molto arricchiti. Abbiamo visto una realtà di grande problematicità, ma anche di grande impegno, dove, accanto alle ombre, ci sono grandi luci. Dove, accanto alle povertà, ci sono grandi ricchezze umane. Dove, accanto al degrado, la gente trova strade incredibili per vivere con una dignità commovente. Storie di vita, di lavoro, di cooperazione che vogliamo fare conoscere anche in Piemonte e in Italia.

Storie invisibili” diventerà presto una mostra. Stiamo infatti lavorando insieme al Coi per allestire un’esposizione di immagini e video che raccontino il viaggio e le attività dei campi, e che partirà proprio dalla città in cui è nata l’associazione: Torino. L’appuntamento è per il mese di maggio, al Polo del ’900, e poi anche negli spazi del Centro San LiborioFabLab Pavone, gestiti da Sicurezza e Lavoro in via Bellezia 19 a Torino.

Intanto, sono già stati organizzati alcuni incontri con giovani e adulti tra Torino e provincia. Infine, è in corso il montaggio di un film-documentario con le immagini e le interviste raccolte nei campi profughi.

Andrea Tomasetto

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