Thyssen, urla e ferite che non si dimenticano in dieci anni

Il parco dedicato alle 7 vittime del rogo alla Thyssen di Torino, di fronte all'ex stabilimento di corso Regina Margherita 400.

Sono passati dieci anni dalla tragedia alle acciaierie ThyssenKrupp di Torino, che si è portata via la vita di sette operai, di sette amici.

Se oggi Antonio – il mio fraterno amico “Tony ragno” – fosse ancora con me, staremmo chiacchierando dei nostri figli. Di quanto Giulia, che ricordo in un porta enfant, è diventata grande e ormai è una piccola donna. Di Giada, la piccolina di casa prima che arrivasse Michele: l’ultimo nato, che oggi porta anche il nome di suo papà.

Rocco, il capoturno, sarebbe invece in pensione già da tempo, in giro per il mondo con la sua dolce moglie Rosetta.

Rosario, Giuseppe e Bruno avrebbero trentasei anni ciascuno. Avrebbero magari messo su famiglia, ma sicuramente sarebbero ancora orgogliosi della loro bellezza e di quanto facevano girare la testa alle ragazze.

Angelo, il mio vecchio compare di avventure lavorative, anche precedenti alla Thyssen, sarebbe in procinto di finire il suo percorso lavorativo e di pensare a come riposarsi dopo tanti anni di duro lavoro.

Roberto, probabilmente, sarebbe a correre dietro ai suoi due ometti. Appassionato come sempre di Formula Uno e di Juve.

Sono passati dieci anni. La Juventus ha vinto tanti scudetti: sai che orgoglio per i ragazzi. La Ferrari non è più quella fantastica di Schumacher, ma non importa: tanto a noi interessava solo vedere i sorpassi in curva e che vincesse il più veloce, il più ardito, il più coraggioso.

Sono passati dieci anni. Torino è cambiata, ha compiuto – o quasi – la metamorfosi da una grigia città industriale a polo di innovazione, turismo, cultura e università di livello internazionale. Le fabbriche che hanno ospitato alcuni degli ex colleghi sono in crisi, si palleggiano tra cassa integrazione, solidarietà, mobilità. Si chiamano ammortizzatori sociali. Anche noi li abbiamo fatti molte volte in Thyssen: dovrebbero avere proprio quella funzione di ammortizzare le situazioni di crisi, di difficoltà, ma non sempre è così.

Dopo dieci anni mi sono fermato un po’, di tempo con il mio vecchio albero davanti all’ex acciaieria. La Thyssen ha riaperto, in parte, il bunker in cui si era chiusa.

Ho provato un brivido profondo nel vedere un ammasso di foglie, un albero abbattuto da una tempesta precedente, tanta immondizia e un inquietante, pauroso senso di abbandono. Quell’albero, quel luogo che doveva contribuire a non dimenticare, è stato dimenticato, inghiottito dal tempo. L’albero, che doveva essere un simbolo, oggi rappresenta perfettamente il degrado di un non luogo. L’ennesima beffa, l’ennesima amnesia.

Quando accade un infortunio sul lavoro, le parole che normalmente accompagnano l’evento sono “vergogna”, “scandalo”. Belle parole di cordoglio, che rischiano però di rimanere soltanto parole, frutto della retorica di un Paese distratto, che accende la propria attenzione solo in occasione di grandi tragedie, inerte e arrendevole davanti alle morti di singoli lavoratori, quasi derubricati a un costo di impresa da pagare se vuoi fare business in Italia.

Tante sono le cose che mi vengono in mente di quella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007. Dai fogli trovati nella valigetta dell’amministratore delegato della Thyssen Harald Espenhahn, in cui si parlava di eroi in TV e che il sottoscritto doveva in qualche modo essere fermato. Le allusioni su Torino culla delle BR e di sindacati comunisti. Quanti schiaffi ha preso la mia città… E ricordo i tentativi di far saltare il processo e l’affronto più grande, quello di colleghi con cui avevamo mangiato in linea centinaia di volte, istruiti per raccontare nell’aula del processo una storia diversa da quella che abbiamo vissuto, istruiti a una cena, con domande e risposte che hanno ucciso ancora una volta Antonio, Angelo, Bruno, Rocco, Roberto, Rosario e Giuseppe. E un pochino anche me, con le loro fantasie di uno stabilimento perfetto, quasi tedesco verrebbe da dire…

La vita alla Thyssen era altra cosa, una volta. Eravamo una famiglia. Ci si supportava come fratelli, con i più “grandi” che davano consigli ai più piccoli, perché in una famiglia è così che si fa.

Quella notte feci il mio ultimo regalo a Giuseppe. Gli comunicai che gli era stato finalmente fatto il contratto a tempo indeterminato. Era felice, felicissimo. Telefonò a sua mamma e già organizzava la pizzata in fabbrica per festeggiare. Quel contratto invece quella notte si tramutò in un contratto a tempo determinato, tanto, troppo determinato…

Mi viene spesso chiesto cosa ricordo di quella notte. Ricordo tutto, voglio ricordare tutto, non posso dimenticare. Soprattutto gli odori, quell’odore indescrivibile della vita che va via, che ti viene strappata. E poi le urla. Il grido disperato di Antonio che voleva fuggire, scappare via, bloccato dietro la linea.

Se chiudo gli occhi quelle urla dilaniano la mia mente, il mio cuore.

L’urlo di Giuseppe: “Non voglio morire!”.

A 26 anni dovresti programmare la tua vita, sognare e avere l’opportunità di realizzare i tuoi sogni, altro che supplicare di non morire…

Quelle urla hanno accompagnato i miei ultimi dieci anni. Ci siamo trovati tante volte insieme. Riabbracciati nei miei sogni e a volte anche nelle somiglianze di tanti ragazzi che ho incontrato lungo la mia strada.

Mi sono posto tante domande. Perché io sono vivo e loro no?

Domande che legittimamente si sono poste le mamme dei miei sette compagni: “Mio figlio aveva 26 anni: perché non c’è più e tu sì?”. Non ho risposte. Non le ho mai trovate: il fato, il caso, un miracolo forse è la risposta.

Morire in una fabbrica morta, già destinata alla chiusura: un paradosso, un’assurdità!

Qualcuno si è chiesto se c’è qualcosa di eroico nel provare a salvare il tuo stabilimento, la tua linea, il tuo lavoro. Erano eroi i sette operai, certo. Ma soprattutto erano ragazzi, uomini che amavano la vita e a cui la vita doveva ancora molto. Una vita strappata via, rapita, rubata, sacrificata agli interessi, alle priorità di chi non ha messo al centro dell’azienda la salute e la sicurezza dei propri lavoratori.

Quelle urla rappresentano quell’ingiustizia. Quelle urla rimarranno non solo nel mio cuore, ma dovranno essere un monito affinché altre mamme, altri papà non debbano piangere i propri figli, prematuramente scomparsi sul lavoro.

Ciao fratelli miei, Angelo, Antonio, Bruno, Giuseppe, Roberto, Rocco, Rosario.

on. Antonio Boccuzzi
Comm. Lavoro Camera dei Deputati
ex operaio ThyssenKrupp Torino