Morire a Milano, con patologica ripetitività

Le morti sul lavoro tornano sulle prime pagine sui quotidiani. La tragica vicenda del 16 gennaio 2018 dello stabilimento Lamina s.p.a. in via Rho 9 a Milano – quattro operai deceduti e altri due intossicati – riporta d’attualità il tema degli infortuni e della sicurezza sul lavoro.

La magistratura ha avviato un’indagine (per omicidio colposo plurimo, affidata al pm Gaetano Ruta e coordinata dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano), i giornali cercano di reperire i numeri più affidabili su vittime e infortunati sul lavoro in Italia, il presidente del Consiglio dei Ministri si commuove, si posano fiori davanti al cancello della ditta, si proclama il lutto cittadino, si organizzano manifestazioni… e in fabbrica si continua a morire. Con una patologica ripetitività.

Ancora una volta, infatti, si muore per un’intossicazione in un “ambiente confinato” (in questo caso, probabilmente dovuta all’azoto o all’argon, respirati in una fossa di poco più di 2 metri x 2). Ancora una volta, muore anche chi è intervenuto in soccorso delle prime vittime.

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La dinamica di quanto accaduto nello stabilimento di laminazione milanese è al vaglio della magistratura, ma già sembra configurarsi l’ennesima tragedia di operai e soccorritori morti come topi, soffocati in un vasca, in un silos, in una fossa o in un serbatoio saturi di gas, polveri o vapori velenosi.

Morti uguali a quelle avvenute già tante, troppe volte. Esattamente, 56 volte, in 35 incidenti sul lavoro in ambienti confinati, dal 2005 al 2016, secondo i dati Inail elaborati dall’Anmil. E delle 56 vittime, oltre il 50% erano soccorritori.

In base alle prime ricostruzioni, nella Lamina di Milano scendono in una fossa – per la manutenzione di un forno che riscalda i rotoli di acciaio – prima il responsabile della produzione Arrigo Barbieri (58 anni) e l’elettricista di una ditta esterna Marco Santamaria (43 anni), ma l’aria è satura di gas. Arriva quindi anche Giancarlo (62 anni, prossimo alla pensione), che sente le disperate grida di aiuto del fratello minore Arrigo e va a vedere cosa succede. Riesce a dare l’allarme, ma si intossica gravemente e muore dopo due giorni di agonia. A soccorrere i compagni interviene anche un altro operaio, Giuseppe Setzu (49 anni): muore pure lui, avvelenato dai gas.

Ancora da chiarire se i sensori di allarme per rilevare gas nocivi non abbiano suonato o se siano stati disattivati per fare manutenzione all’impianto, oppure se nessuno li abbia sentiti. Certo è che la normativa in materia è chiara e puntuale ed è stato oggetto di un apposito Decreto emanato dal Presidente della Repubblica: il DPR 177/2011 – “Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, a norma dell’articolo 6, comma 8, lettera g) del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”.

Cosa non ha funzionato nel laminatoio di via Rho? Erano previste adeguate procedure di sicurezza ed erano state svolte attività di informazione e formazione per il personale sui rischi specifici?

Esistono buone prassi e indicazioni dettagliate al riguardo. Come ad esempio quelle contenute in un manuale redatto dai Vigili del Fuoco, a cura di Gianfranco Tripi, che illustra le procedure di lavoro negli ambienti confinati, le attività di prevenzione e protezione per eliminare o ridurre i rischi, la pianificazione e la gestione dell’emergenza e gli interventi, i mezzi e i dispositivi da utilizzare nelle operazioni di salvataggio.

Non è ancora dato sapere se all’interno della Lamina ci fosse un impianto di ventilazione meccanica dell’ambiente e se gli operai fossero adeguatamente formati e se avessero dispositivi di respirazione o mezzi di imbracatura e kit di rianimazione per soccorrere gli infortunati.

Sarà compito dell’indagine giudiziaria chiarire i fatti e individuare le responsabilità per i fatti di Milano: al momento, è iscritto nel registro degli indagati Roberto Sanmarchi, ingegnere e amministratore unico dell’azienda Lamina, a conduzione familiare. Certo è che l’elenco dei morti sul lavoro si allunga, con dinamiche spesso tragicamente ripetitive.

Morire a Milano fa però più “sensazione”, colpisce nel profondo. Così come avvenne con i sette operai di Torino, bruciati nell’incendio alle acciaierie ThyssenKrupp del 6 dicembre 2007. Due grandi città con un glorioso passato industriale, che torna alla memoria distratta dei cittadini in occasioni di tragedie così brutali, in aziende “sane” (almeno dal punto di vista economico) che lavorano l’acciaio, con buone commesse e personale pagato dignitosamente.

Forse la “scossa” che diede la Thyssen – che portò alla rapida emanazione del Testo Unico 81/2008 su salute e sicurezza sul lavoro – si ripeterà anche questa volta. Forse, oltre a dettagliare ulteriormente normative già esaustive, si deciderà di intervenire sui controlli nelle aziende, troppo laschi, talvolta sovrapposti, spesso inesistenti. E su prevenzione e formazione: la vera chiave per una concreta cultura del lavoro sicuro. Solo così i morti di Milano – così come quelli di Torino, quelli dimenticati nei cantieri, in agricoltura, ecc. – potranno riposare in pace. Solo così verrà fatta giustizia vera: giustizia per i morti che non ci saranno.

Massimiliano Quirico
direttore Sicurezza e Lavoro

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